Un fotografo documentarista è un narratore visuale, una persona in grado di trovare storie e documentarle grazie alla fotocamera. E’ chiaro che per un fotoreporter diventa fondamentale una certa sensibilità e un sincero interesse per le persone e la loro vita. Fabio Moscatelli, fotografo romano, vincitore di vari premi internazionali tra i quali quelli del National Geographic e del Moscow International Foto nel 2014, ha anche esposto al Macro di Roma. Abbiamo parlato con Fabio della sua esperienza di fotografo, delle sue storie a chilometro zero come ama chiamarle, del suo rapporto con la città.
Quando Fabio Moscatelli realizza di essere un fotografo? C’è stato un episodio rivelatore in particolare in cui hai capito che non potevi che essere fotografo?
E’ molto difficile indicare un momento preciso. Credo sia stata una lenta, inesorabile presa di consapevolezza di cosa volessi fare come fotografo. Mi rendevo conto di avere per le mani, ma soprattutto per la testa, uno strumento importante e potente, per conoscere e far conoscere, per capire e scoprire.
Se proprio dovessi indicare il momento fondamentale della mia ‘svolta’, direi quello vissuto durante la realizzazione di No Man’s Land, un progetto sull’ex Ambasciata della Somalia situata nel cuore della Roma bene, divenuta rifugio per quei ragazzi che fuggivano da una guerra civile ventennale. Tornavo a casa commosso ed emozionato per quello che vivevo, ancor prima che per ciò che fotografavo.
Fortunatamente certe emozioni non mi hanno più lasciato…
Tu sei specializzato nella fotografia sociale e documentaria. Quali sono i tuoi pensieri sulla fotografia documentaristica oggi? Quali sono gli aspetti positivi del fotogiornalismo oggi, e quali quelli negativi, ammesso che per te ce ne siano?
La domanda arriva proprio in questi giorni in cui, come ogni anno, si aprono discussioni e soprattutto polemiche sull’assegnazione del World Press Photo.
Sento spesso dire che il fotogiornalismo è morto: personalmente credo che si sia semplicemente evoluto, se in positivo o in negativo non sta a me dirlo. Posso però dire che vedo immagini troppo cruente, con una presenza molto forte di sangue. Nel secolo scorso tutto questo non accadeva, o meglio, forse non se ne sentiva il bisogno e si raccontava in maniera diversa. Ma il mercato detta le leggi e spesso il fotografo è costretto ad adeguarsi per vendere il proprio lavoro.
Oggi siamo quotidianamente ‘bombardati’ da un certo tipo di immagini, a molte abbiamo fatto l’occhio e quasi non ci sorprendono più.
Però abbiamo ancora bisogno della fotografia per indignarci; i giornali di tutto il mondo pubblicano la foto del piccolo Aylan, il bimbo profugo morto su una spiaggia turca, e le coscienze si svegliano. Ora, non voglio dare la mia opinione sulla foto in questione, ma se ha avuto un effetto emotivo così potente, ecco che allora un qualcosa di positivo il fotogiornalismo riesce ancora ad esprimerlo, seppure con le sue profonde contraddizioni.
Andando sul tuo sito web si viene proiettati in una dimensione fotografica nella quale le parole hanno molto rilievo: i testi accompagnano con molta efficacia le immagini. Senti di condividere il pensiero di Ferdinando Scianna che sostiene che la sua fotografia ha una stretta relazione con le parole?
Questione estremamente delicata, un dilemma a cui ancora non riesco a fornire una risposta precisa. Una fotografia dovrebbe esprimersi in maniera “assoluta”: nel momento in cui necessita di una didascalia, probabilmente viene meno al suo ruolo. D’altro canto, almeno per la progettualità, credo che una sinossi sia necessaria: non un testo completamente esplicativo del lavoro, ma qualche riga che aiuti lo spettatore a proiettarsi ed immergersi nel lavoro del fotografo.
La fotografia è un’immagine con delle potenzialità narrative: deve essere in grado di ‘parlare’, altrimenti rischia di diventare un accompagnamento ad un testo.
Senza nulla togliere al Maestro Scianna, credo che lui esprima un opinione legata strettamente alla sua fotografia, tanto da definirsi un ‘fotografo che scrive’.
Questa rivista è dedicata soprattutto alle cose di Roma. Vorrei chiedere a te, fotografo nato e residente a Roma se il tuo essere romano, in qualche modo, influenza la tua visione e il tuo approccio come fotografo…
Sono molto attento alle storie che la mia città offre, e sono davvero tante!
A volte le abbiamo sotto gli occhi, ma non siamo in grado di coglierle; proprio per questo ultimamente mi sto concentrando molto su Roma, cercando di realizzare dei veri e propri progetti a ‘chilometro zero’
Non tutti hanno la possibilità di raccontare storie dall’altro capo del mondo, ma se si ha la voglia di farlo, basta guardarsi intorno.
In questo giorni è esposto al Macro il mio progetto The Right Place, in cui racconto la quotidianità di una coppia di anziani costretta, per vari motivi, a vivere in un camper nella periferia di Roma a soli 5 minuti di macchina da dove abito.
Pur nella sua crisi quasi irreversibile amo la mia città e nelle mie foto cerco di ridarle quel senso di grande umanità che, nonostante tutto, non ha mai smarrito.
Mi ha molto colpito il progetto Fronte del Porto in cui mostri vite all’interno dell’edificio sito in Via del Porto Fluviale 12. Credo sia un documento molto importante dei tanti mondi che la nostra città ospita, spesso in maniera invisibile, nell’incuranza e l’ignoranza delle nostre istituzioni…
È stato il primo progetto “importante” in cui mi sono cimentato. Entrare in un luogo così vicino eppure così distante, farsi accettare e far capire cosa ci fosse dietro le mie intenzioni è stato molto difficile. I primi mesi senza macchina fotografica, solo per socializzare e studiare l’ambiente. Da subito l’ho definita una piccola repubblica sociale nel cuore di Roma, dove convivono persone provenienti da ogni parte del mondo, diversi non solo per usi e costumi, ma anche e soprattutto per la fede che professano. Per molti, inizialmente, questo è stato un ostacolo complicato, ma oggi credo sia un grande esempio di convivenza pacifica e civile.
E’ uno spazio vitale quello del Porto Fluviale: da quanti anni non si vedono bambini giocare per strada o nei cortili?! Tanti, tantissimi. La mia esperienza in questo luogo mi ha fatto riscoprire i valori della mia infanzia, e sono felice di averli fatti scoprire anche a mia figlia, che oggi ha 6 anni e che proprio in questo luogo ha trovato tante amiche e amici, senza barriere di alcun tipo, né fisiche né mentali.
Stai lavorando a qualche progetto attualmente? Ne vuoi parlare con gli amici di Rome Central?
Al momento sono impegnatissimo con la promozione del mio libro “Gioele Quaderno del tempo libero”, il mio primo self publishing che mi sta regalando tante soddisfazioni. Gioele è un bambino autistico, protagonista e co autore del libro insieme a me; ha fotografato anche lui, regalandomi la sua personale visione di ciò che lo circonda, impreziosendo il libro con i suoi disegni e le descrizioni di animali fantastici, degni del miglior Tolkien.
Anche la sua fa parte delle storie a chilometro zero di cui parlavo prima.
Abbiamo costruito questo piccolo miracolo insieme e lo consideriamo solo il primo volume di una lunga storia. Spero di poter raccontare Gioele e far raccontare a lui stesso i suoi anni adolescenziali. Non ho bene in mente una conclusione ma sarebbe bello, e soprattutto interessante, seguire l’evoluzione di questo bambino così speciale in un ometto che so già sarà altrettanto speciale.
Nato a Roma (Italia), Alex Coghe è un fotoreporter, editore, scrittore e fotografo di strada, attualmente residente in Messico. Ha iniziato a fotografare all’età di 10 anni, con fotocamere compatte economiche, fotografando paesaggi urbani, ma la sua inclinazione era già per la fotografia di reportage e sociale e ha iniziato nel 2009 a fare sul serio grazie alla fotografia di strada. Dal 2010 si è trasferito in Messico dove ha iniziato a fotografare un mondo nuovo e surreale a Città del Messico, ma sempre attraverso un occhio documentaristico. In quegli anni collabora con diversi giornali, riviste online e agenzie. Alcuni articoli dalla politica alla cultura sono stati pubblicati per La Stampa, Il Giornale, ed è stato corrispondente dal Messico per Prisma News e L’Indro.
Nel 2011 ha partecipato alla mostra fotografica You Are Here, una competizione/ mostra a Los Angeles, in California, evento sponsorizzato da Leica. Proprio da questa esperienza ha avviato una collaborazione con Leica Camera AG per il Leica Camera Blog, intervistando fotografi di tutto il mondo. Nel 2013 ha lavorato su incarico di Leica Camera AG, alla realizzazione del reportage “Gente di Chapultepec”, pubblicato in tutto il mondo nella brochure di Leica X. In tutti questi anni ha lavorato per clienti di prestigio come Samsung, Burberry e allo stesso tempo, arrivando a realizzare una esperienza importante nella fotografia sociale per la Basilica di Guadalupe grazie al reportage dedicato a Villa Mujeres, una casa che ospita persone abbandonate in strada.
Il suo lavoro è stato pubblicato tra gli altri per Lens Culture, Witness Journal, Il Messaggero, Doc!, Photowoa, The Phoblographer, Cuartoscuro, e Excelsior. Sue fotografie sono state esposte in numerose mostre collettive da Los Angeles a Miami, da Barcellona ad Amburgo arrivando ad esporre il suo lavoro anche in un teatro a Roma.
Come fotografo commerciale è specializzato nella fotografia editoriale, di moda, erotica e di ritratto, lavorando con varie modelle e clienti. Come editore Alex Coghe è attualmente editore e redattore delle riviste elettroniche THE STREET PHOTOGRAPHER NOTEBOOK e Louys. Alex è scrittore (con molti libri pubblicati sulla tecnica fotografica) e fotografo, perché pensa che attualmente entrambe le cose siano strettamente correlate. Ama le strade e la gente: il contatto con la gente è qualcosa che ama particolarmente della sua professione. Alex sta anche dando workshops e viaggi fotografici in Messico e in tutto il mondo, grazie anche al fatto che parla 3 lingue: italiano, inglese e spagnolo. Per Alex Coghe, la fotografia è un atto creativo che va oltre il semplice click.
https://t.co/daw5wfu392 Ecco, finalmente il mio primo pezzo che… https://t.co/OTC7JPHm1z