Intervista di Lucilla Gentile
Incontriamo Andrea Camerini, cantante e autore dei testi delle Nuove Tribù Zulu, in sala prove, durante una pausa: la band è infatti molto impegnata nella preparazione del prossimo live romano che si terrà il 9 gennaio 2016 presso l’Auditorium Santa Chiara (Zona EUR-Torrino) nell’ambito della seconda edizione del Festival Mediterraneo dell’Incontro, organizzato dall’Associazione Culturale Etnochoreia.
Ciao Andrea: la storia della vostra band è assai lunga e piena di esperienze interessanti. Mi piacerebbe partire dai primordi che vi vedono in giro per la capitale con un look e un genere musicale abbastanza diversi da oggi. Puoi raccontarmi come vivevate Roma negli anni ’80?
Iniziammo a suonare sull’onda di quanto ci arrivava musicalmente dall’Inghilterra. Negli anni ottanta c’era davvero poca gente che suonava a Roma e le scuole di musica conoscevano solo due orizzonti: il conservatorio con la musica classica o il jazz. La scena alternativa romana era molto viva, ma davvero ci contavamo uno con l’altro: c’era una vitalità incredibile, perché tutto era da costruire.
E’ stato un periodo particolare, perché la nostra generazione non ha avuto modo di raccogliere l’eredità sociale della fine degli anni settanta. Infatti il sistema politico fece calare una coltre di nebbia dopo gli anni del terrorismo, inaugurando la stagione dell’edonismo USA “reaganiano” che ha raggiunto il suo culmine di ottenebramento con il fenomeno del berlusconismo. I media iniziarono a dettare legge e a manipolare la realtà ed oggi ne vediamo sempre più i risultati.
Noi partimmo con un nome che era tutto un programma: The Cyclone. Suonavamo un rock’n’ roll molto veloce con influenze punk e garage. Il genere si chiamava psychobilly e Londra era il centro propulsivo del fenomeno. Andavo spesso in Inghilterra e tornavo sempre con decine di vinili introvabili in Italia.
Fu così che formammo il gruppo con mio fratello Paolo al contrabbasso ed alcuni suoi amici del liceo artistico di via Ripetta. Tra questi c’era Roberto Berini con cui abbiamo condiviso anni di musica “on the road.” Fu un inizio folgorante, perché dopo il primo disco iniziammo a suonare subito anche all’estero, a Parigi, ad Amsterdam e poi a Londra.
Com’è iniziato il capitolo Nuove Tribù Zulu e qual è stata la risposta del pubblico?
Le Nuove Tribù Zulu nacquero nel 1991, dalla profonda esigenza di andare oltre lo spazio dei locali, ma anche per protestare contro la carenza strutturale di questi ultimi. Il lavoro era davvero da inventare su molti fronti, e la musica alternativa italiana è sempre sopravvissuta grazie all’impegno di tante persone che da nord a sud in Italia si facevano in quattro per offrire ed organizzare qualcosa di diverso rispetto all’egemonia di programmi ed eventi come il Festival di Sanremo.
Decidemmo di scendere in piazza con i nostri strumenti a Campo De’ Fiori, sotto la statua di Giordano Bruno, con l’intento di comunicare con quante più persone possibile, e fu davvero così.
Tra l’altro ricordo che in quei giorni iniziava la prima guerra in Iraq che fu l’inizio del disastro a cui assistiamo oggi. Avevamo molta rabbia dentro e suonare sulla strada fu terapeutico. La Strada è stata la nostra buona Maestra di vita e suonare per tante persone diverse come tipologia ed età ci ha regalato un’esperienza indimenticabile che ci ha formato e ci ha fatto crescere. Fu un successo e capimmo che c’era una forza nel ritrovare suoni acustici folk legati alla nostra tradizione mediterranea come polke e tarante; mescolarli con il rock, il punk e la musica gypsy ci aprì le porte della contaminazione musicale che già apprezzavamo con gruppi come Mano Negra e Négresses Vertes.
Di lì a poco arrivarono gli anni de Il Locale di Vicolo del Fico e poi tanti festival in giro per l’Italia, oltre il teatro e l’esperienza televisiva con Rai 3.
Il vostro repertorio è molto ricco e ascoltandolo si possono incontrare diverse “anime”: una più energica e danzereccia, anche molto virtuosistica, un’altra più intimistica e meditativa. Ultimamente, grazie alla collaborazione con i musicisti nomadi del Rajasthan, se ne è aggiunta un’altra molto “etnica”, che ha aperto la strada a composizioni più “aperte”, a volte costruite su un solo accordo. Quali sono i brani a cui siete più affezionati e che non potreste mai lasciare fuori da un vostro concerto?
Siamo molto legati alle nostre canzoni e ce ne sono alcune che davvero crescono insieme a noi di anno in anno. Sicuramente un brano come Zingara è la vera hit del nostro primo disco Sulla Strada. Questo perché in particolare segna il periodo di contatto con la comunità Rom Khorakhanè di San Paolo a Vicolo Savini (dove io e Paolo abbiamo lavorato come operatori sociali), ma delinea anche quell’attitudine al viaggio e alla scoperta di nuovi orizzonti che fa parte della storia di questo gruppo. Non è un caso che nel 1998 partimmo tutti insieme alla volta dell’India, fu un momento importante per noi.
Altri brani che non tralascerei sono Da Domani Cambio Vita, scelta da Ivano De Matteo come canzone finale del suo film Gli Equilibristi e Il Dio dentro, un brano legato agli anni indimenticabili trascorsi con tutto il gruppo al Centro Età dell’Acquario Monteluce in Umbria.
Per finire, non posso dimenticare Damu Damu Dindindara, il primo brano scritto nelle campagne del Rajasthan, nell’India del Nord, con Suraji, cantastorie e suonatore di uno strumento a corde meraviglioso che si chiama Ravanatha.
Andrea, tu hai vissuto per cinque anni in India e sei rientrato a Roma la scorsa primavera. Che impressione ti ha fatto tornare a vivere nella capitale dopo un’esperienza in un paese così diverso?
Nel 2010 avevo scelto di fare questo salto per molti motivi, il primo dei quali era quello di credere che il futuro potesse essere una sintesi tra oriente ed occidente, e questo in effetti penso stia già avvenendo per certi aspetti.
Tornare di nuovo a Roma dopo tanto tempo trascorso nell’India del Sud non è stato semplice. In India è davvero tutto molto diverso: il tuo fisico si abitua gradualmente al clima tropicale, ai cibi diversi, alla cultura del luogo che devi avere il tempo di codificare ed integrare dentro di te se vuoi viverla fino in fondo.
Stare in India ha un senso se la tua motivazione è alta. La musica come al solito mi è stata d’aiuto e studiare canto Carnatic è stato importante per comprendere sempre meglio l’anima di questa terra incredibile che ti regala sempre esperienze uniche nel bene e nel male.
Di certo l’India e la vita a Pondicherry mi hanno donato una forza diversa e un nuovo sguardo sulla mia città natale dal punto di vista simbolico e mitologico. Riguardo a Roma mi piace pensare ad una citazione da un libro del professor Armando Gnisci Noi altri europei. In un capitolo parlava di Roma e del suo nome segreto “Amor”, ma soprattutto analizzava il fatto che lo spirito di Roma continui a vivere nelle sue stesse rovine, che fanno parte integrante del vissuto sociale e del tessuto urbano della città. Roma è sempre Roma, anche se un proverbio indiano dice che ci sono infinite porte per entrare in India, ma nessuna per uscire.
Sappiamo che presenterete sul palco dell’Auditorium Santa Chiara il vostro nuovo EP “Namasté”: potete dirci qualcosa di questo lavoro?
Si tratta di due nuovi brani: Namastè e Hara Shiva Shankara, in cui abbiamo accolto nella nostra line-up la preziosa presenza di due ottimi musicisti come il musicista iraniano sufi Pejman Tadayon al setar e Sanjay Kansa Banik alle tabla, indiano originario di Calcutta.
In entrambi i brani, gli arrangiamenti sono stati pensati con groove di basso e batteria potenti e ballabili, sull’esperienza di quanto sperimentato anche nei dischi realizzati con i musicisti indiani del Rajastan. Non è un caso che nell’EP trovino spazio anche due remix dei due brani, realizzati da NeroloZ, alias Lorenzo Gentile.
Nelle due composizioni abbiamo voluto cercare un’energia circolare, e se Hara Shiva Shankara è un bhajan devozionale dedicato a Shiva, Namastè unisce sonorità medio orientali e indiane con un andamento ritmico vocale molto vicino alla taranta. L’EP è in uscita con la casa discografica Filibusta Records di Fabio Lauteri.
Parliamo ora del Festival Mediterraneo dell’Incontro: un progetto molto interessante e coraggioso che arriva alla sua seconda edizione. La prima serata, lo scorso 28 novembre, ha visto l’esibizione della Piccola Banda Ikona, mentre il prossimo 19 dicembre ci saranno i gruppi Migala e Algeciras Flamenco. Generi musicali di contaminazione, molto amati in Europa ma che a volte in Italia trovano qualche difficoltà ad affermarsi.
Pensate che in futuro la situazione potrebbe migliorare?
In Italia esistono esperienze musicali importanti che meriterebbero maggiore attenzione. Tutto come al solito dipende dai media e dalla promozione che si è in grado di mettere in campo. Grazie all’iniziativa di persone come Paolo De Pascale e Roberta Parravano dell’Associazione Etnochoreia certi spazi di incontro e condivisione continuano a vivere.
Purtroppo le scelte che continuiamo a vedere lasciano spazio soltanto a prodotti estremamente commerciali – il cosiddetto mainstream – e in un paese come il nostro, dove apparire in televisione fa ancora la differenza in termini di popolarità, non è casuale che molti interpreti ambiscano ancora ai palchi di Sanremo e del Primo Maggio, dove c’è la diretta televisiva della RAI, per non parlare del fenomeno dei format televisivi come X Factor etc…
Questo, a distanza di anni, fa una certa tristezza, anche perché se è vero che i social network come Youtube e Facebook offrono una piattaforma di visibilità, è anche vero che si rischia di perdersi in una moltitudine oceanica di offerte; anche lì, poi, sta vincendo chi è in grado di comprare e sponsorizzare i propri canali e i propri artisti e come al solito le multinazionali vincono su tutti, a parte rari casi.
Davanti a tutta questa offerta si rischia la dispersione e sicuramente viene a mancare quel territorio culturale comune che nel passato aveva anche una funzione aggregante.
Oggi di fronte a tanta scelta mi sembra che ognuno sia libero di posizionarsi nella “gabbia mediatica” che gradisce di più.
Avete spesso unito il vostro stare sul palco con l’impegno sociale: laboratori musicali nelle scuole, progetti con i bambini di Scampia (Napoli), concerti assieme alle danzatrici Rom “Chejà Celen”: cosa vi spinge a cercare questo tipo di interazione?
Crediamo da sempre che la musica sia un affascinante mistero ed una meravigliosa forma artistica per cercare di trasformare la realtà che ci circonda. Il linguaggio della musica è universale ed è in grado di comunicare a tutti qualcosa di immediato, di emotivo, di ancestrale, qualcosa che tocca le profondità dell’animo umano. Per questo abbiamo sempre cercato esperienze di solidarietà e di inclusione sociale attraverso la musica in contesti non sempre facili, e l’idea di portare con noi sul palco le piccole danzatrici Rom Chejà Celen non è casuale. Sulla nostra strada sono arrivati spesso i bambini, che rappresentano il futuro, il cambiamento. Noi, nel nostro piccolo, soprattutto con i laboratori nelle scuole italiane e in giro per il mondo, proviamo a spargere con la musica piccoli semi positivi per cercare di illuminare la strada… Guardando sempre verso il sole.
In un momento così difficile della nostra storia, in cui i conflitti basati sull’identità e la religione sembrano impedire una coesistenza pacifica e fruttuosa tra culture differenti, qual è il messaggio che vorreste diffondere attraverso la vostra musica?
La situazione attuale è molto complessa ed è figlia di errori, abusi e prevaricazioni perpetrate nel tempo. E’ la coscienza umana che deve crescere, perché ogni singola vita umana è importante e preziosa. Il fatto che ancora oggi si arrivi ad uccidere e a massacrare uomini, donne e bambini, non pensando alle conseguenze, fa capire il livello basso e ignorante di chi fa questo, una totale mancanza di comprensione delle leggi dell’universo.
Il nostro messaggio è quello che da sempre emerge anche dai testi e dalle sonorità delle nostre canzoni: è un messaggio di amore, un discorso universale che parte da lontanissimo e che si inserisce sull’onda della storia di uomini e donne che per questo messaggio hanno anche donato la loro stessa vita: noi siamo Uno, al di là di ogni religione, casta, etnia, dogma, razza e colore di pelle; è un invito al movimento della vita oltre ogni paura, alla ricerca della verità dentro di noi e fuori di noi, contro ogni forma di potere che neghi i valori e i diritti umani.
Voi avete girato l’Italia con il Caravan Tour nel 2009 e in seguito c’è stata una tournée in India assieme ai musicisti nomadi del Rajasthan. Puoi parlarci di questa esperienza e del riscontro del pubblico?
I tour in Italia e in India, organizzati insieme a Laura Di Nitto – che ha partecipato anche al management e alla produzione dei nostri album dal 2003 fino ad oggi – sono stati entusiasmanti. L’energia era altissima, nonostante la fatica organizzativa di portare in giro tante persone insieme. Credo che chi ha assistito ai concerti della Nomadic Orchestra of the World abbia capito prima di tutto l’intento che animava il progetto fin dalla sua nascita: l’idea di creare un ponte culturale e spirituale tra Italia e India, due luoghi dalle tradizioni millenarie, che hanno dato origine a grandi civiltà, e allo stesso tempo promuovere i diritti civili delle comunità nomadi e valorizzarne il patrimonio musicale.
In questo è stato fondamentale il contributo dell’organizzazione indiana Chinh India che ha partecipato attivamente alla nascita di questo progetto musicale e culturale.
Ovunque abbiamo suonato, da La Spezia, Trento, Roma e Palermo, per arrivare a New Delhi, Mumbai, Chennai ed Auroville, la risposta è sempre stata piena di calore e grandi apprezzamenti, anche perché siamo riusciti a realizzare qualcosa che non era stato fatto prima d’ora, e in questo ci siamo sentiti fortunati. Ci ha fatto molto piacere il premio “Suoni di Confine 2009” ricevuto da Amnesty International al MEI di Faenza per il miglior live per l’integrazione multiculturale.
Sappiamo che la formazione del concerto del 9 gennaio sarà particolare e ricca di sonorità esotiche: volete raccontarci chi sarà con voi sul palco in questa occasione?
Oltre al sottoscritto, nella nostra classica formazione saranno presenti Paolo Camerini al basso e contrabbasso, Ludovica Valori alla fisarmonica, al trombone e al pianoforte, Roberto Berini alla batteria e Massimiliano Diotallevi al sassofono. In questo concerto siamo felici di ospitare anche il setar di Pejman Tadayon e le tabla di Sanjay Kansa Banik.
Domanda di rito per chiudere in bellezza questo piacevole incontro: progetti futuri?
In questo momento stiamo componendo nuovi brani per realizzare un nuovo disco che speriamo di pubblicare presto.
Per il resto, siamo sempre ricettivi e pronti a captare un’idea che può rappresentare un’altra avventura per noi. Le migliori storie del nostro lungo percorso sono quelle in cui folgoranti intuizioni ci hanno portato a credere con coraggio che tutto è possibile.
Sito web:
www.nuovetribuzulu.it
Pagina Facebook:
https://www.facebook.com/Nuove-Tribù-Zulu-61959127120
Videoclip “Verso l’India”:
Videoclip “Damu Damu Dindindara”:
Videoclip “Zingara”:
Videoclip “Da domani cambio vita”:
Amante dell’arte, della musica e della letteratura – Laureata in DAMS presso l’Università Roma Tre.
ASPETTANDO IL CONCERTO DI SABATO 9 GENNAIO AL FESTIVAL MEDITERRANEO DELL’INCONTRO ALL’AUDITORIUM SANTA CHIARA… https://t.co/33KdZI8ORW